Oggi vi racconto una storia. Immaginate una donna, che chiameremo Daniela, esile, sensibile, organizzata, accondiscendente, la classica moglie che segue il marito, prendendosi cura di lui, delle sue esigenze, dei loro figli e della casa coniugale. È una figura semplice da immaginare, probabilmente ne conoscete molte così, vero?!
Bene, proseguiamo! Ora immaginate che quella donna scelga di lasciare la famiglia, pur con tutto l’amore di cui è capace.
“È impazzita?” si chiederanno molti…
No, semplicemente si è accorta di esistere… Semplicemente dentro di lei è maturata gradualmente la consapevolezza di non avere una propria vita, di aver sempre agito, pensato ed essersi emozionata in funzione della famiglia. Daniela si è resa conto di non poter avere amicizie, frequentazioni, hobby, passioni che esulassero da quelli del marito e dalle responsabilità sui figli (magari maggiorenni).
“Esisto anche io”
“Esisto anche io, con le mie necessità, con i miei desideri, con i miei ritmi”: quante di noi si accorgono di questa consapevolezza che fa capolino ogni tanto?
Bene, prima di arrivare a una rottura completa e sofferta, come nel caso di Daniela, dove ormai era impossibile cambiare gli equilibri familiari, abbiamo mille opzioni fra cui scegliere, ma tutte accomunate da una visione comune: la donna esiste e la famiglia è una creazione a cui lei contribuisce, ma che non può arrivare ad annullarla. Altrimenti, come è accaduto per Daniela, anche la famiglia verrà distrutta insieme a lei.
Frasi come “Prima di dedicarmi al mio libro devo terminare le pulizie di casa” potrebbero essere sostituite da altre tipo: “Caro, mi dai una mano a sistemare, così poi posso dedicarmi alla lettura del mio libro?!”. Oppure: “Non posso venire in gita con me, amica mia, mio marito non vuole”, può trasformarsi nella decisione di aiutare il partner a comprendere una nostra esigenza.
Cogliete il senso?
Non siamo mai realmente sole, né obbligate a fare alcunché
Se ci sentiamo sole o costrette è perché abbiamo scelto di esserlo e di farci carico di un ruolo rigido con compiti ben precisi, ma che, se lo volessimo realmente, potrebbe diventare flessibile e calzare in maniera più morbida sulle nostre vite.
“Per cominciare, la donna deve allontanarsi per restare con se stessa ed esaminare come si è lasciata intrappolare da un archetipo. Il fondamentale istinto selvaggio che decide “solo fin qui e non oltre, solo questo e niente di più”, dev’essere recuperato e sviluppato. Così una donna può mantenere le coordinate. Meglio tornare a casa per un po’, anche se gli altri si irritano, che restare e peggiorare, fino a cadere a pezzi.
Pertanto, donne stanche, temporaneamente stufe del mondo, che avete paura di prendervi del tempo, di fermarvi, svegliatevi! Buttate un lenzuolo sul gong che continuamente vi chiama per aiutare questo e quello. Sarà ancora lì per essere scoperto, se lo vorrete, al vostro ritorno. Se non andiamo a casa quando è tempo di andare, perdiamo la focalizzazione. Ritrovare la pelle, infilarla, tornare a casa aiuta a essere più efficienti, dopo. Si dice: non puoi tornare a casa. Non è vero. Non potete infilarvi di nuovo nell’utero, ma potete ritornare alla casa-anima. Non è soltanto possibile, è necessario.”(Clarissa Pinkola Estes, “Donne che corrono coi lupi”)
Ho seguito diverse clienti alle prese con storie come questa e il filo conduttore era sempre il ritrovare se stesse. Per questo, prima di arrivare agli sgoccioli della pazienza, è fondamentale prendersi cura di sé: se non impariamo a farlo, cosa mai trasmetteremo ai nostri figli? Se non c’è amore per noi, come potrà essercene per il nostro partner?
Donne, come vi risuona la storia di Daniela? Uomini: e a voi? Se vi va, arricchite questa storia con la vostra, lasciando un commento qui sotto!
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